domenica 25 dicembre 2011

Il Presepe e la rinascita della luce interiore

Guardando un po’ più approfonditamente il presepe che tutti abbiamo in casa in questi giorni viene da notare che non sono presenti solamente elementi radiosi e positivi; c’è la notte, quella del solstizio d’inverno, la più lunga dell’anno, il freddo, personaggi poco raccomandabili come ubriaconi ed osti, altri un po’ ottusi come i pastori addormentati fino ai mercanti avidi; eppure tutto questo non è in realtà una nota stonata.
Il presepe infatti è la celebrazione della rinascita della luce nuova che in tutte le tradizioni religiose del mondo è ostacolata da ciò che è vecchio e stabilizzato; facendo un parallelo con la nostra psiche si potrebbe dire che ciò che di nuovo abbiamo in mente, progetti, cambiamenti di vita o modifiche nello sguardo verso il mondo sono all’inizio molto fragili; spesso i vecchi adattamenti della personalità non vogliono lasciargli il posto, altre volte la luce nuova rischia di illuminare parti di noi che non vorremmo vedere e che desiderano restare al buio. Tutto questo buio che osteggia la luce lo possiamo vedere rappresentato nel presepe; addirittura in alcune tradizioni vengono aggiunti diavoli o insetti insieme agli altri personaggi classici; anche l’oste già citato è un simbolo del demoniaco tentatore, in Austria si mette lo spazzacamino, immagine di colui che invade l’intimità con la sua nerezza.
Passando all’opposto di ciò che siamo soliti vedere nel presepe si potrebbe affermare che tutte le forze più oscure ed inconsce si siano date appuntamento per frenare la nascita del bambino Gesù, colui che riporterà la luce nel mondo.
Il bambino che rinasce ogni anno rappresenta l’archetipo dell’eterno ritorno, che concentra le energie psichiche necessarie per la trasformazione; e questa nascita avviene sullo sfondo buio della notte più lunga dell’anno, nel suo momento più profondo, la mezzanotte e nel luogo più scuro, la grotta.
La nascita nella grotta evoca il viaggio negli inferi proprio di diverse culture, probabilmente di tutte, e simbolizza la discesa nelle profondità inconsce della propria psiche interiore.
Il buio delle profondità della mente è abitato da energie forti, a volte regressive, capaci di osteggiare il cambiamento cosciente fino a dimostrarsi distruttive. È l’eterna lotta fra l’inconscio e la coscienza che porta luce ed illumina le parti più nascoste di noi, quegli aspetti che sotto sotto vorremmo tenere segreti anche a noi stessi; sono quelle forze, pur sempre nostre, che paradossalmente effettuano resistenza ai cambiamenti in meglio, inclini a differire scelte ormai mature ma impegnative da sostenere; sono quelle parti che vogliono a tutti i costi mantenere lo “status quo”.
Mentre in una parte oscura e profonda della psiche si preparano cambiamenti radicali e salti di coscienza, altre parti dell’individuo indugiano nel compiacimento di qualità già acquisite e rassicuranti; è questo che rappresentano le miniature delle osterie, l’oste o gli ubriachi, figure che spesso compaiono nei presepi; ancora di più l’obnubilamento della mente si palesa nelle figure di pastori addormentati, quelli che non sentono la chiamata interiore al cambiamento.
Spesso le nostre abitudini affermate e date per scontate sono quelle che noi abbracciamo nella società, accettate da tutti e per questo rassicuranti al massimo livello; e nel momento in cui viene l’ora della “nascita”, l’ora di esprimere la propria individualità più originale, sorge la paura che quella cultura che ci ha sempre sostenuto possa essere contraria al nostro nuovo stile di vita e di conseguenza escluderci e toglierci il sostegno; questo per esempio è il motivo per cui si trovano tante pecore nelle rappresentazioni del presepe. La pecora ci dice la Von Franz, rappresenta l’uomo-massa, indicano quelle parti della personalità che necessitano di essere orientate e guidate da una funzione psichica che gli faccia da guida; i pastori appunto.
Nonostante ciò sono proprio gli animali del presepe a fungere da mediatori tra il nuovo che nasce e l’oscurità che vuole impedirlo; se il Bambino è la luce della coscienza che illumina, la luce della conoscenza di noi stessi, e se i vari personaggi negativi sono quelle forze che vogliono lasciarci così come stiamo pur di non soffrire uno sforzo, allora gli animali, quelli domestici, rappresentano una via di mezzo tra i due, rappresentano si gli istinti inconsci ma sono addomesticati, quindi simbolizzano gli impulsi di cui siamo coscienti e che permettono di avvicinarsi a quelli più selvatici al fine di gestirli meglio e di salvaguardare la vita del nuovo che nasce. Non per niente il bue e l’asino sono tra le figure che più di altre partecipano alla nascita e che con il loro fiato impediscono che il Bambino Divino muoia di freddo.
E così salvano il desiderio nascosto in ognuno di noi di esplorare nuovi mondi, di fare progetti, nuove esperienze, di sviluppare nuove attitudini, senza neanche preoccuparci troppo di ciò che ne pensa la cultura imperante.
Questo Bambino appena nato e così fragile ci fa capire quanto i nuclei della personalità cosciente appena affiorati, le nuove consapevolezze di sé o del mondo, siano precari e vadano difesi con forza e realizzati nonostante la loro fragilità; allude all’ingenuità di buoni propositi non ancora attuati, alla precarietà di neonati sogni di gloria che attendono la prova dei fatti.
Jung chiamava questo archetipo “Puer Eternus”, bambino eterno, tanto fragile ma con tanta forza dentro di sé da poter cambiare il mondo, amante del nuovo, giocoso, esuberante e dinamico, idealista e visionario, creativo e trasformativo; possiede tutte le caratteristiche essenziali per intraprendere un’esperienza nuova, per affrontare una rivoluzione personale, per realizzare un’innovazione nella propria esistenza.
Così nel presepe tutte le figure sembrano esistere in sua funzione ed ognuna personifica atteggiamenti e funzioni essenziali per riformulare la propria soggettività ogni volta che un’esperienza di vita ha fatto il proprio tempo e chiuso il proprio ciclo.
Così Maria si fa interprete di un aspetto femminile mentale più che fisico, legato alla perseveranza ed all’intuizione di portare avanti un progetto più grande di lei; senza la sua forza nulla potrebbe nascere; nulla può svilupparsi in un’ottica di vita deputata all’esclusivo momento presente ed alla leggerezza delle scelte.
Così Giuseppe è una figura capace di mettersi da parte, una istanza psicologica di stampo maschile e paterno che piuttosto che affermare il suo potere si scosta per dar spazio alla nascita del bambino; questo fa comprendere come non ci si può rinnovare senza essere capaci di mettere da parte quello che abbiamo di certo e di sicuro, tra questo le regole del vivere sociale.
Così gli animali domestici, portatori dell’aspetto “carnale” ed istintivo ma non selvaggio della vita; come a dire che se non si seguono gli impulsi nulla può rinnovarsi davvero, perché qualunque progetto di cambiamento resti solo nella testa e non si bagni alla fonte delle emozioni e della passione come della sofferenza non può riuscire ad essere tanto testardo da realizzarsi.
L’aspetto più grande di tutta la rappresentazione della Natività si trova però nella sua capacità di mutare forma nel passare dei secoli; questo è testimoniato dal fatto che nessun presepe è uguale all’altro, che cambia a seconda dei luoghi e delle tradizioni. Porta cioè un messaggio che pur essendo vecchio quanto l’uomo resta sempre attuale e capace di rinascere in luoghi e culture differenti; questo per capire che se l’esperienza del nuovo che nasce dentro di noi appartiene a tutti, si rivela davvero “novità” solo nel momento in cui lo facciamo davvero nostro e gli diamo la forma del nostro lavoro per esso.

venerdì 23 dicembre 2011

Stress Natalizio

Il Natale, la festa più sentita, amata e attesa dell’anno, si è da tempo trasformata in qualcosa di molto diverso rispetto a quel periodo davvero magico di quando eravamo bambini. È tutto uno stress; tra regali da comprare, auguri da inviare, parenti da andare a trovare e cenoni da organizzare, più che una festa sembra un lavoro, un impegno a tempo pieno che comincia ad occupare gran parte delle nostre energie fisiche e mentali fin da novembre, con l’apparire in Tv dei primi spot di panettoni e pandori. Ci si trova ad avere anche a che fare con abitudini che magari non abbiamo mai sentito veramente nostre, che avremmo cercato di sfuggire per poi magari sentirci in colpa….e aumentare lo stress.
Stress da regalo
A fronte delle svariate tradizioni sopra elencate la conseguenza naturale è la frenesia da acquisto che si sviluppa proprio in questi giorni, l’acquisto del cibo per pranzi e cenoni ma, soprattutto, per l’acquisto dei regali. I regali di Natale più che momento gioioso e di condivisione per la maggior parte degli italiani sembrano essere una vera e propria fonte di stress, tra corse dell’ultimo minuto, indecisione su cosa acquistare e su quanto spendere. Sembra che siamo capaci di percorrere 15 km al giorno tra passeggiate e spostamenti con i mezzi pubblici e di dedicare circa 7 ore allo shopping natalizio ed alla ricerca del regalo ideale. Sembra strano ma è così; il Natale non è solo gioia e voglia sana di donare qualcosa, le festività di fine anno sono da più parti anche viste come ansia da regalo che si manifesta con l’irrefrenabile bisogno di acquistare il dono, di sceglierlo con cura ma al contempo vivere la scelta con quel minimo o massimo di insoddisfazione certi del fatto di non aver potuto operare la scelta giusta. A Natale inoltre si litiga anche con il partner per la scelta del regalo da fare, troppo caro per uno, inutile per l’altro e poi il Natale è anche il momento dell’anno in cui forse più che mai ci si rende conto di come spesso si guadagni troppo poco per riuscire a dare sfogo alla propria smania di regalare e non essere da meno nei confronti degli altri.
Le attese sbagliate generano lo stress di Natale
Queste abitudini non possono non generare stress; ma è davvero colpa del Natale? Non sarà che ad aumentare lo stress ci sono soprattutto una serie di aspettative sbagliate? Prima di tutto la voglia di sentirsi i migliori, quelli che hanno azzeccato il regalo giusto, capaci di stupire, di donare felicità. Ma anche quella di non deludere le aspettative altrui, di non fare gaffe o brutte figure. Il regalo di Natale allora diventa un dovere, un oggetto attraverso cui ci si sente misurati, analizzati, valutati; insomma, uno stress. Perdendo tutta la sua valenza divertente, piacevole, romantica, il regalo di Natale diventa sono una fonte di ansia, persino di sensi di colpa.
Come allontanare lo stress di Natale
Innanzitutto potrebbe essere utile cambiare le aspettative e, di conseguenza, i nostri comportamenti. Se il regalo esprime affetto non è necessario farlo per dovere; abbandonando i sensi di colpa si potrebbe decidere di fare regali a chi davvero desideriamo farne. Nella stessa ottica è possibile limitare il budget di spesa, perché l’importante è far sentire la propria vicinanza affettiva, non stupire con gli effetti speciali.
Secondariamente bisognerebbe programmare gli acquisti per tempo, evitando corse all’ultimo minuto; in questo senso è utilissimo dividersi i compiti e scegliere con cura i “compagni di shopping”, in base ad abitudini e gusti onde evitare litigi e discussioni. E se non si riesce comunque a pianificare tutto va ricordato che il 24 dicembre i negozi sono aperti fino al pomeriggio. A tutto si potrebbe anche aggiungere che i regali si possono anche pianificare, almeno qualcuno, via internet.
Infine l’ultima tendenza che arriva dagli esperti per superare indenni la prova regalo si chiama “shopping break”, ovvero la “pausa da acquisto”, cioè il momento in cui staccare la spina dalla maratona regalo, per ragionare, fare il punto della situazione e ricaricare le batterie per individuare il regalo giusto. Questo almeno è quanto emerge da uno studio di una agenzia di marketing italiana, promossa grazie al coinvolgimento di 120 esperti di regali: direttori e responsabili di negozi, commessi, consulenti e personal shopper, oltre a psicologi, medici, sociologi e personal trainer per capire come affrontare lo stress da regalo.
Lo shopping break è una vera e propria pausa d’acquisto, in cui rigenerarsi, fare il punto della situazione, pianificare le scelte giuste e dare spazio al confronto ed alla selezione di ciò che si è già visto e di ciò che c’è ancora da vedere. Un momento in cui rifocillarsi con una bevanda calda o un aperitivo: il tutto per non far diventare un tormento il momento dell’acquisto.

Sommando il tutto si può concludere che esiste una sola regola giusta per eliminare lo stress di Natale: spezzare le abitudini e fare ciò che si sente davvero.


sabato 10 dicembre 2011

Fuochi nella notte (delle emozioni)

Nei giorni dell’8 e del 9 dicembre in molte zone d’Italia si rinnova la tradizione dei falò, usanza antica quanto la notte dei tempi legata alla simbologia del fuoco e che ci può far riflettere su di noi perché rappresenta le fiamme delle passioni e delle emozioni che se a volte possono realmente travolgerci e farci sragionare più spesso ci aiutano a non sentirci soli nel mondo.

Attualmente la tradizione dei falò è legata ai festeggiamenti dell’Immacolata ma all’origine nasce come rito propiziatorio per la fertilità dei campi, è infatti in questo periodo che il grano spunta dalla terra e il fuoco serviva per allontanare la sfortuna e garantirsi un buon raccolto; era un modo per aiutare la natura a superare l’inverno. Anche questa è una tradizione legata alle festività della luce (vedi post su Halloween ) atte a favorirne il ritorno dopo il buio della stagione invernale.
Il falò è una pratica propiziatoria legata al simbolo del fuoco, uno dei 4 elementi, forse quello considerato più nobile, esso scalda, illumina e, soprattutto, trasforma.
Il fuoco può manifestare tanto una valenza negativa quanto una positiva, per esempio nei sogni, almeno in via generale, è diverso se compare un incendio piuttosto che un focolare oppure, appunto, un falò.
Nella psiche dell’uomo il fuoco è strettamente legato alle emozioni travolgenti, alle passioni, anche quelle violente che conducono all’esaltazione o al blocco psicologico, letteralmente ci si “infiamma” per qualcosa e nasce un incendio che letteralmente brucia le capacità di adattamento della psiche. In questo caso emerge l’aspetto incontrollabile delle fiamme, l’ardore si impossessa di noi nei momenti meno opportuni e proprio come il fuoco può essere ingestibile; è vero che a volte le emozioni violente hanno breve durata (un fuoco di paglia) ma è anche vero che se non vengono comprese e gestite ritornano in qualunque momento si rinnovi il motivo scatenante (come il fuoco che cova sotto la cenere) continuando a creare dolore. L’incendio rappresenta l’incapacità di gestire le emozioni, fino a poter simboleggiare la psicosi, uno stato di isolamento dalla realtà; non per niente esiste un detto africano secondo il quale “il fuoco non ha fratelli” indicando quelle passioni esclusive che letteralmente consumano la persona fino a portarla all’autodistruzione all’interno di una sorta di spirale della violenza in cui si diventa gli unici referenti di se stessi e non si ascolta la ragione di nessuno.
Basti pensare alla bruciante passione della sessualità e dell’amore in generale; è proprio in questo campo più che in altri che si tende a non sentire ragioni, quanti iniziano storie nonostante, ad una riflessione posteriore, era chiaro non ci fosse il minimo di base per portarla avanti? Ma accecati si segue la luce del fuoco interiore senza rendersi conto se le basi per far ardere in futuro quelle fiamme esistono realmente o solo nella nostra fantasia. Ma è proprio l’amore che, se da un lato si nutre degli impulsi più incontrollati, può raggiungere picchi altissimi di “spiritualità”, basti pensare alle relazioni che riescono a superare indenni, anzi, trasformate, il tempo e legano per sempre le persone.
Se quindi da una parte il fuoco rappresenta le passioni incontrollate, dall’altro rappresenta anche la possibilità di domarle ed incanalarle; è proprio questo che ci racconta il mito di Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dei per darlo agli uomini, insegnando loro ad usarlo. Si perché il fuoco ha valore divino più che umano (può travolgere), anche quello delle passioni, e non è facile per l’uomo gestirlo; una volta che però ci si riesce appare in tutto il suo fulgore il suo valore trasformativo e rigenerante.
Il fuoco fonde i metalli, cuoce le pietanze; come a dire che le emozioni se accuratamente “coltivate” permettono di vivere meglio la vita, è grazie ad esse che possiamo radicarci nel mondo e sentircene parte, grazie a loro sentiamo di fare parte di un gruppo, grazie ad esse possiamo metterci nei panni degli altri e sentirci vicini (un amico può essere il migliore focolare a cui scaldarsi ed a cui confidare i pensieri); non si può comprendere una emozione in qualcuno se non la si è provata sulla propria pelle.
Sotto questo aspetto il fuoco, più che simbolizzare l’impulsività inconscia, rimanda all’aspetto spirituale dell’uomo; la fiamma che sale verso il cielo sembra liberarsi, spogliarsi della materia e salire verso la divinità; intorno ai falò si prega sperando che le sue fiamme, salendo leggere al cielo, possano portare le richieste degli uomini a Dio. La Von Franz ci dice che il fuoco era chiamato il Grande Giudice perché separa ciò che è degno di sopravvivere da ciò che non lo è; qui siamo nell’ottica dell’abbandono del controllo sulla vita; in questo senso il fuoco brucia l’Io e soprattutto brucia la sua arroganza, da un punto di vista psichico significa che il nostro Ego si libera dalle manie di controllo per far si che la persona possa godere delle sorprese che la vita gli riserva ed esprimersi in modo più libero e creativo; il fuoco rappresenta anche l’attitudine creatrice.
Nella sua capacità di distruggere la materia e trasformarla in fiamma è rivelatore della quintessenza, quel quinto elemento che si trova uguale dentro tutti gli altri, che accomuna tutte le cose create; secondo gli alchimisti permette di separare “il sottile dallo spesso”, liberando la scintilla divina che giace nascosta in ogni elemento della materia.
In conclusione il fuoco ci parla delle nostre emozioni, che possono divorarci e farci compiere gesti inconsulti come se fossero un incendio ma che, se comprese e condivise con chi ci sta vicino, possono aiutarci a ritrovare quella parte di noi che, come detto nella Bibbia, ci rende simili a Dio permettendoci di sperimentare a fondo l’esistenza e trovare un senso nuovo alla vita; anzi, di vedere in ogni giorno un giorno nuovo da cui poter ricominciare.

domenica 4 dicembre 2011

Il fantasma del "sacrificio"

In questi giorni negli incubi degli italiani vaga sempre più spesso lo spettro del “sacrificio” prospettato dall’attuale governo. La reazione è depressiva in quasi tutti i casi, fare un ulteriore sforzo spaventa; questo perché il “momento del sacrificio” viene visto in generale come momento eterno mentre non se ne riesce a cogliere la possibilità trasformativa.

Le scomode decisioni di cui si dovrà fare carico l’attuale governo stanno sempre più spaventando l’opinione pubblica; la percezione che hanno la maggior parte delle persone è quella di una situazione in cui da un lato c’è ,anzi, ci sarà, chi farà dei sacrifici per far riprendere il paese mentre dall’altro c’è, ci sarà, chi non vorrà impegnarsi perchè non ritiene necessario abbandonare una possibilità di benessere immediata. E questo fa innervosire oltre il dovuto, soprattutto chi è disposto allo sforzo, fa preoccupare l’idea in generale di dover soffrire ancora; la paura di fondo è che da tanti sforzi potrebbe non venirne niente.
Questo modo di pensare nettamente separato in due, questo modo di guardare alla situazione attuale, però, nonostante possa certamente poggiare su dei dati reali, è pericoloso per la persona, crea squilibrio nella personalità e di conseguenza amarezza e stress, con l’autentico rischio che ci si fasci la testa prima di sbatterla e di lasciare il campo libero all’ansia ed altri dolori psichici legando le paure per il futuro alla situazione realmente critica di questo momento (vedi post sulla crisi economica).
Questo modo di percepire le cose fa male perché è una percezione scissa in due polarità rigide e contrapposte; il sacrificio da un lato, la sconsideratezza dall’altro. Il problema è che chi entra solamente nell’ottica del sacrificio rischia di farlo in modo masochistico senza sperare in un vantaggio mentre chi entra esclusivamente in quello della sconsideratezza lo fa utilizzando la negazione dei problemi rischiando di non riuscire a comprendere la gravità reale della situazione. La rigidità di questi due modi di pensare fa rimanere ognuno impantanato nelle proprio opinioni e invischiato nei propri foschi pensieri senza poterne uscire.
Allora a fronte di queste strade senza uscita bisogna ricordare che il termine sacrificio deriva da “sacrum facere” ossia “rendere sacro” qualcosa, offerta alle divinità e preghiera; in quanto preghiera dovrebbe essere disinteressato, chi prega “spera” e non “pretende” che le cose migliorino.
Quindi sacrificio come “tensione del vivere” e non come semplice masochismo coattivo; Alexander Lowen, fondatore della Bioenergetica, diceva che l’uomo è come un elastico teso fra cielo e terra, teso e vibrante perchè attraversato dalle energie tanto psichiche quanto fisiche che lo rendono vivo e soddisfatto; una tensione vitale quindi e non stressante.
Sotto questo aspetto la tinta fosca di cui ai nostri occhi è tinto il sacrificio viene schiarita e lo si può far rientrare tra gli eventi naturali e non per forza devastanti della vita.
Il mito al fondo della cattiva opinione che si ha del sacrificio deriva dall’insopprimibile desiderio dell’uomo di riuscire ad attraversare indenne la vita, una sorta di fantasia del Paradiso Terrestre.
In realtà attraversare l’esistenza con troppa leggerezza è come attraversare una tangenziale senza prima guardare a destra e a sinistra, può andare bene ma non è sempre detto.
Nello stesso tempo passarla immersi in sacrifici snervanti ed eccessivi è un po’ come continuare a lavare i panni a mano pur avendo in casa una lavatrice.
Anche restare in mezzo fermi tra i due modi non sarebbe produttivo; nella staticità si nasconde spesso la nevrosi.
In realtà la vita può essere attraversata in maniera “dinamica”, oscillando tra i due poli, il sacrificio può essere visto cioè in un’ottica trasformativa; i due modi di vivere sopra esposti non sono negativi in sé per sé, il problema è legato alla staticità; quando si è immersi nel sacrificio di sé non si riescono a vedere i momenti belli anche se ci sono, e si resta tristi e senza speranza; quando si vive in maniera troppo superficiale non ci si rende conto dei pericoli ma vengono perse anche le emozioni profonde che rendono piena la vita; in ogni caso in ognuno dei due c'è il rischio di restare chiusi in se stessi senza accorgersi realmente del mondo che sta intorno.
È vero che la vita può essere a volte sofferenza e pesantezza come è vero che può altre volte essere gioia e leggerezza; la cosa più importante è che dalla vita piuttosto che malconci oppure indenni se ne riesca ad uscire trasformati, arricchiti e più maturi, ma questo lo si può fare solamente uscendo ogni tanto da una delle due ottiche per entrare a conoscere anche l’altra.

mercoledì 30 novembre 2011

La fine delle passioni

Le passioni ci spaventano, è vero che ogni tanto ci troviamo a provarne di travolgenti, amorose, sessuali, politiche, paurose etc., ma possiamo davvero chiamarle passioni? In realtà sono spesso emozioni (rabbia, paura, disgusto, gioia etc.) che durano poco, le vere passioni comportano riflessione, sono durature e spesso provocano sofferenza e proprio per questo ci fanno paura, ci fanno perdere il controllo e di conseguenza cerchiamo di spegnerle. Il problema è che più che sparire finiscono per trasformarsi in ansia o depressione e più che “passioni” finiscono per diventare veri e propri “patimenti” dell’anima.
Per capire come mai le passioni stiano sempre più sparendo è necessario riflettere sul significato della parola passione; dal latino “soffrire” “sopportare”, quindi passione vuol dire provare una sofferenza ma anche sopportarla e quindi bisogna andare a cercare il significato, tra gli altri, di sopportare; dal latino “supportare, sostenere”, indica quindi uno sforzo per portare su di sè qualche cosa, in questo caso potremmo pensare ad una emozione tanto forte e travolgente da fare quasi male.
Fino a qui tutti bene, tutti soffriamo e sosteniamo quindi non si potrebbe dire che le passioni siano in estinzione, anzi tutt’altro. Però il termine “sopportare” ha anche un ulteriore significato più specifico: “resistere” ed in questo caso invece si può spiegare il titolo di questo articolo.
Se alla base della passione c’è anche la resistenza il discorso potrebbe cambiare; le passioni sono lì per insegnare qualcosa, per parlarci di noi, ma noi non vogliamo ascoltarle proprio perchè portano con sè la sofferenza prolungata. Oggi però è sempre più difficile trovare chi piuttosto che chiudere gli occhi di fronte alle cose che non vanno decide di analizzarle e trovare una risposta.
Le emozioni travolgenti esistono ancora, ma le passioni, che durano a lungo, no, non c’è voglia di resistere, se una cosa non può essere ottenuta viene abbandonata per un’altra, c’è sempre meno voglia di combattere ed impegnarsi per ciò che si desidera, e il combattimento è “passione”.
Non è possibile comprendere le passioni senza prendersi il giusto tempo per ascoltarle, ed il problema è proprio il tempo, sempre più prezioso e sempre più centellinato.
Non è altrettanto possibile comprendere una passione senza entrarci in relazione, ma come si può fare per rapportarsi con essa? Solamente sperimentandola; ma allora come sperimentarla? Vivendola nella vita reale.
Alla base di questo meccanismo c’è quella che in psicologia dinamica viene chiamata proiezione, l’attitudine prettamente umana a rispecchiarsi negli altri; Jung diceva che per scoprire la propria Ombra personale (il lato nascosto ma anche sconosciuto di sè) poteva essere un buon inizio osservare ciò che meno piace degli altri e vedere se per caso quelle caratteristiche non albergassero anche in se stessi; ovviamente questo può valere tanto per caratteristiche negative quanto positive (anche se in via generale ciò che appartiene all’Ombra tende a fare paura). Questo principio quindi parla della naturale tendenza dell’uomo a cercare di conoscersi, e rivedersi negli altri è un modo come un altro per farlo, forse anzi il modo migliore.
Riconoscere le proiezioni comporta appunto tempo e sofferenza, comporta passione. La passione che ci lega al partner, ai figli, la passione sessuale e travolgente, il senso di appartenenza a qualche cosa, tutto avviene tramite questo meccanismo di base che quindi è prima di tutto un mezzo di conoscenza a nostra disposizione.
Provare passioni significa vivere nel mondo e rapportarsi ad esso, alle persone, agli eventi, significa riuscire a condividerle prima ancora di riuscire a capirle, significa stare con gli altri.
Il tempo diventa un elemento fondamentale; le passioni nascono dalle emozioni e le emozioni sono delle reazioni corporee che lasciano il tempo che trovano; per un momento abbiamo una certa reazione emotiva che però, come tutto ciò che comporta una scarica chimica fisiologica, tende ad esaurirsi per poi ripropoporsi quando ce ne sono i motivi scatenanti; le emozioni per essere capite, si potrebbe dire “patite”,  hanno bisogno di tempo.
Per appassionarsi allora bisogna vivere il mondo e le persone ma anche darsi il tempo di vivere le emozioni che ciò che ci circonda provoca in noi, nel cuore e nello stomaco prima ancora che nel cervello.
Solo dando spazio dentro di sè a ciò che si prova è possibile trovare un senso ai sentimenti, e questa attesa è l’attesa della passione, del sentimento travolgente.
Questo ascolto provoca patimento al nostro Io, alla parte cosciente di noi che vorrebbe tenere sotto controllo la situazione e spegnere le avvisaglie dell’incendio prima che possa provocare degli sconvolgimenti nell’anima.
E qui sta il punto, pur di non perdere il controllo vengono soffocate le passioni, basta pensare che questo è il comportamento alla base dell’ansia, ossia il tentativo di prevenire ciò che non ci aspettiamo, un tentativo che a volte raggiunge livelli patologici che a loro volta provocano comunque sofferenza psichica.
Ma non è solo l’ansia il nemico delle passioni, lo è anche la depressione, lo stato di anestetizzazione verso il mondo (anche verso quello interno) che impedisce le emozioni sul nascere, le congela prima ancora che arrivino sulla soglia, per evitare il riproporsi di un dolore.
Il tentativo, in sintesi, è proprio quello di bloccare il tempo, perchè pensare che lo sconosciutoche  bussa alla porta possa generare solo sconvolgimento negativo non è altro che chiusura in un passato negativo che magari spaventa, è mancanza di apertura verso un presente ed anche un futuro che invece potrebbero essere migliori.
Ma la paura di soffrire è troppo forte, il tenere fermo il tempo dà maggiore sicurezza, la sicurezza che ci viene da un mondo che anche se insoddisfacente è conosciuto, Fromm diceva, non per niente, che la più grande paura dell’uomo è la libertà; e si potrebbe aggiungere, le passioni liberatrici.
Ma allora come fare; il bisogno di sicurezza non è così facilemte superabile, come non lo sono l’ansia o la depressione.
Forse sarebbe necessario considerare bisogno di sicurezza, ansia e depressione delle passioni; esse infatti provocano comunque sofferenza consapevole, in particolare l’ansia, e quindi è necessario dare loro libertà di cittadinanza nel regno delle passioni.
Allora, se anche loro sono passioni, bisognerebbe lasciargli spazio; il dolore psichico migliora nel momento in cui viene ascoltato, nel momento in cui gli viene riconosciuto un senso ed uno spazio, è proprio questa per esempio la  prima utilità di una cura psicologica, appunto basata sull’ascolto.
Cercare di ascoltare i sintomi piuttosto che cancellarli o negarli, tramite l’esclusivo uso di farmaci per esempio, dà il via al loro riconoscimento e permette di trovargli un senso ma, soprattutto, è anche un modo per entrare in contatto con se stessi; un percorso di certo lungo e sofferto ma sicuramente ed autenticamente liberatorio.
E non è neanche detto che questo significa passare attraverso una lunga psicoterapia; quando il dolore psichico è  moderato può essere sopportato e compreso nel suo significato con l’aiuto degli altri; Borgna in un recente libro parla di “comunità di destini”, intendendo con ciò la possibilità di condividere il disagio e la sofferenza; confrontarsi con altri che provano lo stesso disagio permette di comprendere quale sia lo scopo ultimo del dolore psichico, permettere l’incontro con l’altro, tanto l’altro fuori di noi (le altre persone) quanto l’altro (il diverso da sè) che ospitiamo nella nostra anima.

sabato 26 novembre 2011

Psicologia e saggezza orientale

È capitato a tutti almeno una volta nella vita di provare un travolgente senso di autenticità, di libertà e di forza, magari solo per un momento; A. Maslow ha chiamato questi improvvisi stati di libertà e sollievo “peak experiences”, esperienza picco. Quello che forse non sapeva è che dei concetti simili erano presenti nella filosofia cinese secoli fa e sono espressi nel “I Ching”, il libro dei mutamenti.

Peak experiences e Plateau experiences
Maslow coniò il termine Peak experiences, ossia esperienza culmine, esperienza massima per descrivere quei momenti in cui si manifesta un forte senso di piacere e di sollievo, in cui ci si sente un tutt’uno con il mondo. Descrisse l’esempio di una giovane madre che mentre osservava il marito ed i figli fare colazione si sentiva allegra e rilassata; mentre entrò un raggio di sole attraverso la finestra la sua visione la portò a rendersi conto di quanto fosse fortunata; lo era sempre stata ma solo ora si rendeva conto di ciò che davvero significasse, in qualche modo il raggio di sole aveva portato alla sua consapevolezza qualcosa che sapeva già dentro di sé.
Maslow si accorse anche che era possibile rievocare questo stato di massima esperienza avuta e poi dimenticata ed il rievocare le esperienze di picco porta a sperimentare di nuovo la stessa sensazione, è come vedere quelle immagini composte da molti particolari all’interno delle quali si nasconde un disegno, uno volta che è stato visto diventa visibile in qualunque momento.
Maslow descrisse inoltre le Plateau experiences, letteralmente esperienze “altopiano”; una sorta di stato ottimistico di sottofondo, sensazioni di pace interiore in cui si sente di avere il proprio posto nel mondo, e di meritarlo. Questo tipo di sensazione è diverso dalle peak experiences; mentre queste sono improvvise e travolgenti, le Plateau sono più durature e maggiormente sfumate, sono lo sfondo attraverso cui poter favorire il ripetersi delle prime.
La sensazione provocata da queste esperienze è quella di essere anche noi a poter trasformare il mondo che ci circonda e non viceversa, anche perché con il mondo ci sentiamo in uno stato di coesione e partecipazione.
Questo tipo di esperienze sono fondamentali per riuscire a sentirsi pienamente realizzati e soddisfatti, in armonia con il creato, propositivi e creativi.

Dalla psicologia umanistica alla filosofia orientale
Gli stessi concetti di stati di estasi e stati di durata e stabilità li troviamo descritti nel “I Ching”, il libro dei mutamenti, un testo oracolare cinese antichissimo che è anche un concentrato di filosofia.
Le origini di questo libro sono considerate lontanissime nel tempo agli albori della storia cinese, nasce come libro oracolare, attraverso il quale, lanciando delle monete e vedendone il risultato numerico, si otteneva una risposta, all’inizio semplicemente si o no, nel tempo sono nate delle “sentenze” scritte nel libro che lo hanno reso più complesso; esso è formato da 64 combinazioni di simboli, per ogni simbolo esiste una descrizione o sentenza che dà la risposta alle domande.
Il libro dei mutamenti è però anche la base delle due religioni cinesi, il confucianesimo ed il taoismo, che sono state influenzate dai suoi contenuti filosofici e che a loro volta hanno influenzato l’I Ching. Il termine mutamenti è ciò che lo caratterizza sotto l’aspetto filosofico, tutta l’opera si basa infatti su un principio di base, quello che noi chiameremmo trasformazione della materia, il mutamento di stato delle cose appunto.
Comunque tutto il libro dei mutamenti si basa su due simboli principali: Ch’ien, il cielo, il creativo e K’un, la terra, il ricettivo.
Il creativo corrisponde alla forza luminosa, spirituale ed attiva, il suo fondamento è il movimento temporale e la perseveranza, va a rappresentare l’impulso creativo dell’uomo ed il senso di totalità.
Il ricettivo corrisponde alla forza in ombra, ancora oscura; la sua qualità è la dedizione e l’estensione dello spazio, nell’uomo rappresenta la solidità e la capacità di accogliere e contenere.
Questi due segni sono in rapporto stretto, il creativo può realizzare solo nel momento in cui collabora con il recettivo; in altri termini quest’ultimo fornisce la base operativa del primo.
Si potrebbe dire che il creativo senza il recettivo non porterebbe nulla a compimento, esattamente come le esperienze di plateau sono la base attraverso la quale rievocare esperienze di picco.
Inoltre nel simbolo del creativo è possibile individuare le “idee” allo stato puro, la forza e l’intensità caratteristiche delle esperienze di picco; nel recettivo può essere vista la stabilità e il profondo stato di quiete caratteristiche delle esperienze plateau.

Ri-evocazioni
A questo punto ci si potrebbe chiedere come sia possibile vivere nuove esperienze “picco”.
Uno stato di plateau experience provoca l’aumento delle possibilità di avere delle peak experience quindi il primo è uno stato d’animo non prescindibile per le seconde.
Uno stato di ottimismo e disponibilità verso la vita è sicuramente qualcosa che si basa sulle esperienze di vita, sulla certezza di poggiare su solide basi, ed in questo caso l’ambiente in cui si è vissuti sembra fondamentale; bisogna però pensare che la sicurezza può essere acquisita nel tempo, non per forza dall’inizio, chiunque potrebbe avere la fortuna ( o la capacità) di crearsi un ambiente adeguato allo sviluppo della propria sicurezza interiore, indipendentemente dal passato; è un po’ come per la rievocazione delle esperienze picco, da un ricordo è possibile ristrutturare un proprio modo di essere diverso dal passato, certo ci vuole tempo ma è possibile.
In questo circuito quindi non è importante da dove si parte, si può iniziare da una esperienza improvvisa e folgorante quanto da uno stato di tranquillità di sottofondo, entrambi possono condurre allo stesso obiettivo; la cosa veramente importante è l’esperienza di vita.
In realtà questi due tipi di esperienze, picco e plateau, si rinforzano a vicenda; più si vivono le prime più, nel tempo, si stabilizza la seconda e più questa è stabile maggiore è la possibilità di avere di nuovo le prime e così via, in un circolo dinamico che si rinforza da sé.
Spostandoci di nuovo sui simboli dell’I Ching ci viene detto dal libro dei mutamenti che quando i due simboli principali non sono in armonia tra loro e si allontanano non si produce la vita; essi lavorano insieme; il recettivo rimane sterile senza l’intervento del creativo (l’esperienza di plateau non si stabilizza se non avvengono più di una esperienza picco nel tempo ) mentre il creativo non può realizzare se non ha la base del recettivo (se le peak experience non hanno una base plateau non riescono ad essere prodotte).

Co-incidenze
Nella realtà la possibilità di entrare in questo circuito auto rinforzante non è così semplice, richiede la disponibilità ad entrare in un’ottica diversa dal solito, lontana dalla visione stretta e controllante che abbiamo della vita.
Siamo abituati a vivere la consequenzialità, a vedere la causa degli eventi ma non il loro valore intrinseco, Jung direbbe che viviamo immersi nel pensiero causale, in cui ad ogni azione corrisponde una reazione conseguente ed adeguata, ma non riusciamo a lasciarci sorprendere dalla casualità, dal fatto che le cose avvengano anche per caso e che non possiamo controllarle (come per caso ed in modo incontrollato si manifestano le peak experience).
Per esempio gli antichi cinesi più che interessarsi alle cause si interessavano al caso; per fare un esempio; noi diciamo che è successo il fatto “C” perché prima era accaduto “B” a sua volta provocato dal fatto “A”, spieghiamo gli eventi mettendoli uno di seguito all’altro, in nessi di causa effetto; gli antichi cinesi si sarebbero invece chiesti come mai sia successo che A B e C siano accaduti insieme, interpretando il collegamento tra i fatti come un evento casuale, fortuito portatore di un suo specifico significato.
Le esperienze picco sono appunto eventi fortuiti, casuali, che hanno un grande valore ma che bisogna essere capaci di vedere; Per tornare all’esempio dell’inizio, se la giovane madre fosse stata solo a preoccuparsi dell’orario e della preparazione, per esempio, della cartella dei figli il raggio di sole non lo avrebbe visto e si sarebbe persa l’opportunità di vivere una esperienza soddisfacente che ha dato all’improvviso un senso nuovo alla sua vita, il senso di una vita fortunata.
Per noi occidentali è banale, dice Jung, pensare che la cosa che sta avvenendo in un certo momento ha le caratteristiche peculiari di quello specifico momento, tanto banale da non farci caso, per la mentalità cinese non sarebbe così perché il singolo momento può lasciare segni molto stabili e duraturi nel tempo; sentirsi fortunati in un certo istante può cambiare il modo di vedere la vita ed innescare una serie di eventi fortunati ( è importante sentirsi fortunati per esserlo davvero).
In definitiva diventa necessario riuscire a slegarsi almeno per un attimo dalla catena di controllo con cui teniamo stretta la vita, lasciando spazio agli eventi che sembrano inutili o banali ma che guardati dal lato giusto possono nascondere la possibilità di trovare un senso nuovo alla nostra esistenza.

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mercoledì 23 novembre 2011

E liberaci dallo stress quotidiano....

 Secondo una recente ricerca pare che l’81% degli italiani abbiano a che fare con  sintomi dello stress; cefalee, mal di stomaco, disturbi del sonno. Se è vero che non è possibile cambiare il proprio lavoro o la propria famiglia (tra le principali cause di stress giornaliero) è vero però che si possono individuare delle modalità che permettano di gestire leggere situazioni stressanti in modo adeguato, occupandosi per primi del proprio benessere.

Secondo una indagine promossa dall’ANIFA (Associazione Nazionale Industria Farmaceutica dell’Automedicazione, l’81% degli italiani soffre di disturbi legati alla tensione emotiva. Il lavoro ed i problemi economici, nell’ordine del 54% e del 46% sono i principali ambiti in cui si sviluppa lo stress, seguiti dalla gestione familiare e dalla vita di coppia.
Di fronte alla difficoltà a gestire situazioni stressanti si creano sintomi somatici, anzi psico-somatici, e quindi possono passare ore prima di prendere sonno (anche contare le classiche pecore può risultare inutile), oppure ci si sveglia in continuazione; spesso può capitare di svegliarsi la mattina dopo una regolare quantità di sonno ma ci si sente più stanchi che alla sera.
Dopo una pesante giornata di lavoro ci si può trovare ad accorgersi che la tensione si è annidata dietro alla nuca tendendo i muscoli e provocando mal di testa………per non parlare di bruciori di stomaco o pesantezza causata dalla digestione lenta.
A volte questi disturbi possono durare per settimane, nella maggior parte dei casi si esauriscono in qualche giorno
Nel primo caso si può parlare di un disagio più serio; non bisogna dimenticare che corpo e mente sono strettamente legati e quindi i malesseri fisici possono rappresentare una voce dall’inconscio, forse ci sono cose che nella vita non vanno proprio, stati di conflitto interiore che creano disagi e non c’è la volontà (o il tempo) per rendersene conto, per tenere in considerazione queste comunicazioni del corpo. In questi casi potrebbe essere opportuno rivolgersi ad uno specialista, medico o psicologo, soprattutto nel momento in cui i disturbi fisici durano per varie settimane e si ripresentano spesso nel tempo.
Il secondo caso è quello più comune; spesso questi sintomi spariscono dopo qualche giorno e si manifestano sporadicamente in situazioni di tensione di cui la persona riesce anche a rendersi conto.
Quando è così è possibile davvero ricorrere all’automedicazione, adottando alcuni piccoli accorgimenti per combattere lo stress quotidiano.
Innanzitutto bisogna specificare che lo stress non è esclusivamente negativo: ad un basso livello infatti è quello che permette l’attivazione e la partecipazione alla vita, in genere aiuta a favorire il raggiungimento dei propri obiettivi; per esempio senza un pò di stress non ci si attiva per cambiare situazioni di vita stagnanti; in altre parole senza stati di bisogno si finisce per sentirsi immobili ed annoiati. In questo senso quindi non va eliminato ma semplicemente gestito affinchè non raggiunga livelli di guardia.

Nella gestione delle tensioni quotidiane le parole chiave potrebbero essere due: ritualità e cambiamento.
I riti servono per “segnare il passo” della giornata; Frankl, fondatore della Logoterapia, ci dice che tutti abbiamo delle Sub-personalità, che spesso sono legate ai ruoli che svolgiamo quotidianamente, al lavoro manifestiamo alcuni aspetti di noi, a casa altri ancora, altri ancora con gli amici; può essere utile segnare il passaggio da un ruolo all’altro, per esempio cambiarsi d’abito di ritorno dal lavoro, o addirittura, semplicemente, lavarsi le mani pensando che così si smette di essere impiegati per tornare ad essere partner o genitori. Ognuno può trovare il suo piccolo rito per separare i diversi ruoli.
Un altro rito importante può essere la colazione, si può dedicare del tempo solo a se stessi appena svegliati, gironzolando per casa o affacciandosi alla finestra prendendo il proprio caffè; stesso valore può avere una colazione al bar; questi passaggi da un momento all’altro sono momenti “cuscinetto”, valgono come ammortizzatori per favorire un passaggio indolore da casa al lavoro (o viceversa) e meritano la spesa di tempo (ogni tanto ci  si può alzare un pò prima per dedicargli spazio).
Sono solo piccoli momenti ma danno l’idea che ci si sta occupando di se stessi.
Se da un lato i riti danno sicurezza e favoriscono la capacità di gestione della giornata, dall’altro i cambiamenti la movimentano quando si soffre la routine; servono per dare ossigeno alla mente quando ci si sente asfissiati dalla quotidianità. Un modo potrebbe essere di utilizzare un percorso diverso dal solito per andare a lavoro (chiaro che è necessario partire un pò prima, non si può sfidare troppo l’ansia del ritardo), oppure fare colazione in un bar diverso dal solito. Una cosa estremamente utile è  quella di cambiare postura; per esempio se ci accorgiamo di stare camminando a testa china o con le spalle curve è importante provare a raddrizzarsi e guardare di fronte a sè (provare per credere) o addirittura cambiare la posizione davanti al computer; durante il lavoro ogni tanto ci si può spostare o alzare per sgranchirsi un pò, scambiare due chiacchiere e si riparte meglio. Un altro modo di rilassarsi è quello di concentrarsi sulla respirazione, favorisce la concentrazione dei pensieri (per chi è seduto su una sedia è sufficiente appoggiare le mani sulla pancia e sentire il suo sollevarsi ed abbassarsi).

Chiaramente questi sono solo piccoli trucchi, non risolvono situazioni più gravi per le quali come già detto serve rivolgersi ad uno specialista, però possono aiutare a gestire I piccoli stress di tutti i giorni; molto spesso il tentativo che si fa è quello di cambiare ciò che ci circonda pensando che è da lì che arrivi lo stress; questo non è totalmente vero, la tensione si crea tanto a causa di situazioni di vita quanto a causa della nostra incapacità di gestirle; bisogna pensare che cambiare il modo di affrontare gli eventi è molto più semplice ( e meno stressante ) che sforzarsi di cambiare il proprio capo o il proprio partner.
Il valore aggiunto che si ha attivando piccoli trucchi per gestire lo stress non è solo che le situazioni ci stressano di meno ma soprattutto che attivarsi per gestirle aumenta il senso di soddisfazione e si recupera un pò quella confidenza ed intimità con se stessi che la “corsa” quotidiana contro il tempo sembra portarci via.
Giostrarsi tra piccoli “rituali” e piccole “follie”  consapevoli e calcolati rende la vita più “personale”; non si cambia di sicuro la propria esistenza ma si può recuperare il senso di proprietà e gestione su di essa rendendola più piacevole.


sabato 19 novembre 2011

La crisi e i suoi (psico) derivati

È di ieri la notizia di uno studio svolto da Confesercenti sulle aspettative degli italiani riguardo alla crisi economica. Secondo questa indagine siamo sempre più pessimisti ed il 96% degli intervistati pensa che il peggio debba ancora venire. Corollario della crisi è l’aumento dei disturbi psicologici, in particolari quelli depressivi e d’ansia, legati a demotivazione, disistima e perdita di identità. Ma ci sono anche dei fattori protettivi rispetto a questi disturbi e sono legati al senso di efficacia personale e, soprattutto, dalla presenza della rete sociale.

La situazione economica mondiale ed europea in particolare sta raggiungendo picchi sempre più gravi, crollo delle borse, disoccupazione, licenziamenti, mancanza di soldi per arrivare a fine mese sono sempre più diventati i nostri “diavoli” personali; e, peggio ancora, di questa crisi non se ne riesce a vedere la fine.
Secondo la Confesercenti gli italiani Sono sempre più pessimisti. Ritengono che la crisi economica non stia affatto terminando, sono sempre più preoccupati per il futuro del mercato del lavoro, sono sempre più allarmati per le prospettive della propria situazione familiare, e stanno perdendo la speranza. Ancor più significativo il fatto che i più preoccupati siano, oltre alle persone vicine al pensionamento che guardano con timore alla possibile riscrittura del sistema previdenziale, proprio i giovani e gli studenti.
Da giugno a oggi, è aumentata dal dal 57% al 71% la quota di italiani assolutamente convinta che il peggio non sia passato, mentre sale dal 27% al 42% la percentuale di persone preoccupata per il futuro del suo stesso posto di lavoro
Il vissuto di incertezza per il futuro, la paura della perdita del lavoro, la recessione danno il via all’ansia, alle preoccupazioni ossessive per il lavoro; ad essere colpiti da questo stato d’animo non sono solo le persone che il lavoro lo hanno perso ma anche i loro colleghi che sono riusciti a mantenerlo.

Nel primo caso quello che viene perso è il proprio senso di identità; uno dei principali elementi che lo costituisce è infatti rappresentato dal lavoro, dalla propria capacità produttiva, la forza sufficiente per mantenere magari i propri familiari; il venire a mancare di un’occupazione vuol dire non avere più un ruolo sociale, la capacità di sostentare se stessi e magari la propria famiglia. Ognuno di noi però è proprio sui ruoli sociali che sviluppa la rappresentazione di sé e la sicurezza che gli consente una corretta integrazione sociale; la perdita di lavoro incide quindi tanto sul ruolo sociale quanto sull’autostima. Venuta a mancare l’occupazione si rischia quindi di precipitare in una spirale depressiva, la depressione infatti si sviluppa sulla base del senso di perdita, in questo caso la perdita del lavoro equivale a perdere una considerevole parte di sé che lascia un vuoto nella persona.
Non per niente sono aumentati negli ultimi anni i suicidi causati dall’improvvisa disoccupazione, alla loro base spesso c’è uno stato depressivo che non è stato tenuto in considerazione.

La situazione non è necessariamente migliore per chi un lavoro ce l’ha ancora; anche se meno grave l’attuale situazione lavora ai fianchi fino a portare allo sfinimento e sull’incertezza, sulla mancanza di prospettive attecchisce l’ansia. La paura del licenziamento, di perdere tutto ciò che si è costruito per una vita, crea delle vere e proprie ossessioni. L’ansia infatti è una reazione naturale di fronte all’incertezza ed alla paura, una specie di segnale di allerta; per chi ancora ha un lavoro è come vivere perennemente con una spia di pericolo rossa e lampeggiante dentro la propria testa.
In base allo studio citato gli italiani hanno una visione del futuro sempre più fosca, ormai pochissimi pensano che la situazione migliorerà nel breve periodo, ancora peggiore è il fatto che la percentuale dei pessimisti sia aumentata in pochi mesi, vuol dire che il senso di disillusione e delusione è sempre maggiore.  Crolli improvvisi delle convinzioni positive sono terreno fertile per la depressione e la demotivazione.
In effetti è proprio il circuito motivazionale che finisce per spezzarsi; noi ci sentiamo motivati a svolgere una certa azione perché agiamo sull’onda di tre fattori principali: un fattore emotivo che ci porta a desiderare qualcosa, un fattore cognitivo che riguarda le aspettative di successo nel raggiungere questo qualcosa, un fattore volitivo che è rappresentato dalle azioni concrete che svolgiamo per raggiungere il nostro obiettivo.
Tanto la depressione quanto l’ansia finiscono per inceppare questo circuito bloccandolo; l’abbattimento emotivo agisce sul primo fattore mentre l’ansia sul secondo, sulle aspettative di successo. Questo vuol significare che l’attuale vissuto di incertezza blocca il desiderio, la voglia di agire, persino la voglia di cominciare qualunque cosa; è una forma di difesa dalla delusione.
Si può provare a difendersi diversamente, per esempio buttandosi in nuove imprese in modo maniacale, ma questa non è che una negazione del problema; è della scorsa settimana un articolo sul Resto del Carlino che parlava proprio di questo, del fatto che come reazione psicologica alla crisi molte persone decidono di buttarsi troppo velocemente in attività che non sono state ben pianificate e questo è un sicuro indicatore di insuccesso.

Difendersi dalla crisi deprimendosi o negandola non sono i modi migliori per risolvere la situazione.

Come sempre in questi casi il fattore tempo è importante, non si può agire sull’onda della fretta.
Il primo fattore protettivo dai vissuti depressivi maniacali o ansiosi è la ristrutturazione delle aspettative; diventa cioè necessario non puntare troppo nettamente sull’obiettivo finale ma concentrarsi sui cosiddetti sotto-obiettivi; più semplicemente, piuttosto che concentrarsi su una promozione di questi tempi potrebbe essere meglio riuscire ad accontentarsi di un piccolo aumento.
Un secondo fattore potrebbe essere il tentativo di sviluppare delle azioni creative; per esempio trovarsi degli interessi e cominciare a coltivarli, questo aiuta a sentirsi meglio con se stessi ed a concentrare l’attenzione maggiormente sulle proprie capacità. Un ulteriore vantaggio dello sviluppare la creatività è che così facendo si entra in rapporto con se stessi in maniera più profonda e ci si può sentire più soddisfatti, aiuta a capire che se il mondo è un po’ più buio e persecutorio ci si può prendere cura di sé in prima persona.
Un terzo fattore, più importante degli altri è legato alla possibilità di mantenere una rete sociale funzionante. La rete delle relazioni rappresenta la palestra dove si impara ad avere fiducia in sé e negli altri, dove si impara a non rimanere soli di fronte alle difficoltà. Rompere questa rete significa ridurre la possibilità di reagire positivamente e creativamente alle crisi.
Avere una rete sociale intorno, vuoi la famiglia, vuoi gli amici, vuoi un gruppo di riferimento, è uno degli aspetti psicologici che concorrono alla formazione di quella capacità di reagire positivamente ai cambiamenti e di trasformarli in opportunità; in termini tecnici si parla di “resilienza” oppure di “efficacia personale” che però sono appunto delle competenze che non possono svilupparsi al di fuori di una rete di relazioni  significative e solide.
Le persone con cui abbiamo rapporti di alto valore affettivo sono quelle che meglio di chiunque altro possono non soltanto sostenerci nelle difficoltà, anche in senso pratico, ma sono soprattutto quelle che ci ricordano in continuazione che abbiamo un valore che travalica il ruolo sociale o la produttività, il valore dell’esserci.

sabato 12 novembre 2011

Questioni di politica incoscienza

Siamo attualmente in balia di una fortissima crisi, non solo economica, quanto anche politica. Ma nonostante ciò possiamo davvero prendercela esclusivamente con i politici? Forse no, o almeno non del tutto; in fin dei conti da qualcuno sono stati eletti, e da questo qualcuno dovevano essere osservati e valutati; forse è questo il passaggio che è mancato?
Quello che viene sempre di più a mancare è l’interesse di ognuno per la politica e per la democrazia; viene detto che siamo sempre più individui nevrotici ma così si dimentica quanto sia malata la moltitudine di noi individui, il gruppo e, per rientrare nel tema, la “polis”, intesa non come città ma come moltitudine, folla, elemento fluido in movimento che ormai tanto fluido non è più.
Perché se come individui siamo sempre più capaci ed acculturati, più “coscienti”, come moltitudine appariamo più che altro ciechi e, soprattutto, disinteressati; è nell’insieme che non funzioniamo più; in termini psicoanalitici si può dire che stiamo sempre più ritirando le proiezioni dal mondo; ma le proiezioni sono proprio quelle che il mondo ci permettono di viverlo, di entrarci in risonanza; è fondamentale diventarne consapevoli, altrimenti siamo trascinati dalle emozioni che proviamo, ma non annullarle, altrimenti il mondo esterno perde di significato e non riusciamo più a conoscerlo.
L’insieme è una “cosa” che esiste fuori dall’individuo, così come la “res-publica”, la cosa pubblica, Repubblica; perso l’interesse partecipe al mondo perdiamo anche l’interesse per la politica e non la seguiamo, smettiamo di proiettare le nostre emozioni su di essa e quindi finisce per trasformarsi in qualcosa che non ci interessa perché non ha più niente da dirci.
Interesse partecipe significa interesse approfondito; quando mi occupo in profondità di una cosa la vivo e ci metto dentro qualcosa di me, i miei interessi, le mie speranze, le aspettative; una volta conclusa l’occupazione l’oggetto che mi ha interessato è diventato anche mio.
È necessario in ogni caso porre una differenza, è possibile interessarsi alle cose in due modi; Jung diceva che possiamo rapportarci al mondo secondo due modalità; una estroversa ed una introversa. Semplificando si può dire che nel primo caso (estroversione) prendo la mia energia interna e la realizzo nel mondo esterno modificandolo, nel secondo (introversione) prendo energia dal mondo e la realizzo dentro di me modificando me stesso; entrambe sono fondamentali nell’economia psichica, entrambe devono essere presenti, la rimozione di una di esse può generare la nevrosi.
In questo senso si può dire che la modalità di relazione verso l’esterno che prevale oggi sembra essere di stampo introverso; questo vuol dire che il nostro rapportarci al mondo avviene sempre più in un’ottica di esclusiva introversione, il mondo ci serve ma a noi non interessa servire al mondo.

Dal gruppo alla massa
Nel momento in cui vengono effettuate proiezioni verso un insieme di persone si può parlare di gruppo; una unità vitale che può essere biologica come nella famiglia o istituzionalizzato come i gruppi di lavoro. La sua formazione dipende da proiezioni inconsce che creano rapporti emotivi tra i componenti stabilendo collaborazioni durature, che non si scindono a causa di avvenimenti esterni e mantengono carattere di affettività nel tempo. 
Diverso è il discorso della massa, la cui caratteristica è la mancanza della proiezione o la mancanza della sua gestione da parte di un centro organizzatore come il gruppo; se nel gruppo la coscienza individuale viene mantenuta e lotta per farsi ascoltare dal gruppo, all’interno della massa resta invece come addormentata; senza proiezioni il senso dell’uomo si svuota e nel contempo la personalità si appesantisce, dovendo fare tutto da sé, in un’ottica sempre più narcisistica.
A questo punto il movimento di massa permette di sfogare tutto ciò tramite un “agito” ossia una partecipazione non consapevole e superficiale. La partecipazione alle “cose pubbliche” insieme alle altre persone viene motivata solo come sfogo momentaneo al fine di un alleggerimento, quindi è una partecipazione di tipo esclusivamente introverso, fatta per sé. Diventando massa le persone non riescono a costituire una unità psicologica che si identifichi in qualche modo con il gruppo e la sua psicologia e restano rassegnate dopo essere state inebriate dalla partecipazione al movimento di massa, lo sfogo, infatti, non è mai risolutivo perché al suo interno non si produce consapevolezza ma solo scarica istintuale. Nel contempo le persone tornano ad essere sole perché non esistono affetti/proiezioni che soddisfino il bisogno primario di relazione.
Il sentimento politico oggi appare sempre più così, fatto di esaltazioni immediate, di superficiale stampo rivoluzionario,fuochi di paglia che sempre si riaccendono senza però riuscire a produrre quel calore che sarebbe necessario per sentirsi partecipi; fatto quindi di continui abbandoni improvvisi e demotivazione, un disinteresse che permette alla classe dirigente di fare quello che vuole perché tanto nessuna la guarda veramente.


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sabato 5 novembre 2011

Quando la catastrofe è anche dentro


 Non è solo una devastazione geologica, è anche una devastazione dell’anima quella che risulta dallo scatenarsi della forza della natura addosso a uomini impotenti; questo è quello che sta accadendo in questi giorni in Liguria ma che purtroppo troppo spesso succede, vuoi per incuria vuoi per mancanza di prevenzione, vuoi per vecchie leggerezze edilizie.
E quello che in questi casi accade alla mente rappresenta un capovolgimento di tutte le certezze, sconvolgimenti che come quelli naturali cambiano il paesaggio della psiche, sempre a lungo, a volte per sempre, un vero disorientamento, l’incapacità di riconoscere il luogo in cui si è vissuti fino allora, l’incapacità di riconoscere la forma mentale in cui la coscienza ha riposato fino a quel momento.
La mente resta ferita, lo shock, la paura, la rabbia, il sentirsi inutili e impotenti. Questi vissuti emotivi provocano reazioni a più lungo termine come l'indecisione, la preoccupazione, difficoltà a concentrarsi, perdita di memoria.
A queste si aggiungono le reazioni fisiche quali la tensione, la tachicardia improvvisa, l'insonnia e cambiamenti nelle relazioni sociali come la diffidenza, la conflittualità e l'isolamento.
Queste sono le reazioni naturali a quello che è un cosiddetto evento traumatico ed avvengono sempre; il rischio maggiore è legato a quello che viene definito in termini tecnici Disturbo post traumatico da stress, che dura a lungo e lascia tracce profonde dentro.
I sintomi più gravi riconoscibili in questo disturbo sono la dissociazione, il rivivere ossessivamente l'esperienza vissuta attraverso ricordi terrificanti e incubi, il tentativo estremo di evitamento del vissuto attraverso l'uso di sostanze. Oppure un altrettanto estremo intorpidimento emozionale. Altri sintomi sono riconducibili all'iper-attivazione (attacchi di panico, rabbia, irritabilità estrema, agitazione intensa), a una condizione di ansietà eccessiva e a una grave depressione.
Fortunatamente non sono tutti i casi a sfociare in questa forma di disturbo, in via approssimativa circa un quarto degli individui in base alle statistiche, che può diventare cronico.
La cosa peggiore in tutto questo è che si perde la fiducia nella vita, si va a spezzare quel filo sottile che lega l’uomo alla natura in un rapporto di sicurezza; la natura allora appare non più come una madre buona, la madre di vita, magari data per scontata, ma come madre terribile e distruttrice, madre di morte, che come una gorgone pietrifica la mente e il cuore;  anche se, fortunatamente per la maggior parte delle persone, non per sempre.

Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi, 
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra tutti questi paesaggi l'animula vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è
e non trova riparo.
Wislawa Szymborska